Ho sempre usato la fotografia come mezzo di comunicazione. Non amo parlare, preferisco ascoltare; motivo per cui, nel momento in cui ho dovuto scegliere il mio modo di raccontare di me, ho trovato come fedele alleata la macchina fotografica.
Qualcosa che assomiglia a “Ciao sono Monica e sono fotografa”.
Sono, non faccio. Un po’ come gli scrittori. Perché credo che anche fotografo ci si nasca.
Essere fotografa
Io me la sono sentita sottopelle fin dai tempi dell’Accademia di Belle Arti, la fotografia. Era il mio modo di prendere appunti, la mia complice quotidiana, la mia compagna in un viaggio che sarebbe partito di li a poco. Il mio.
Erano gli anni 90, quindi niente Internet per le ricerche ma ore e ore sui libri. E, nel mio caso, alla macchina fotografica. Ricordo bene la tesi e il periodo in cui la sviluppai. Un passaggio, soprattutto, mi torna ora in mente, quasi come fosse premonitore della “me del futuro”…
Desideravo sviluppare, tra le altre cose, il lavoro di Claudio Cintoli e, nello specifico, la sua crisalide. L’artista si fa avvolgere e legare stretto da Fabio Sargentini con dei lenzuoli e delle corde, fino a scomparire trasformandosi in una enorme palla.
Una crisalide, per l’appunto, ossia lo stadio evolutivo che precede quello adulto. Una trasformazione interna, segreta agli occhi di chiunque. L’artista è lì con in suo bagaglio di prima, quel suo essere fino a quel momento, i libri che ha letto, quelli che ha studiato, “i grandi” che lo hanno formato ma anche gli errori, le cadute.
Tutto celato agli occhi dei più, in un lavoro tutto personale che appartiene solo a lui. Ma nel frattempo costretto, senza capacità di movimento, nell’attesa di diventare altro (nella migliore delle ipotesi).
Poi lo squarcio, e la rinascita a nuova vita, come un parto, come il primo respiro.
Era il 1969, nella Galleria L’Attico di Roma. Che buffo, l’anno della mia nascita.
E io mi sentivo esattamente così, come qualcosa in divenire, senza sapere cosa; con il senno di poi ho trovato buffo questo collegamento, questa necessità forse di una evoluzione, che non è di tutti.
Credo che “costrizione” sia la parola che terrorizza di più ogni artista o chiunque decida di utilizzare la creatività come forma di comunicazione.
Costretti in qualcosa che non ci appartiene, che non ci rappresenta; costretti in un lavoro o in una situazione perché “ormai è tardi” o per paura di lasciare quella comfort zone che a volte è davvero una gabbia che ci costruiamo da soli. Senza che una naturale evoluzione avvenga, senza diventare mai farfalla. Essere fotografa per me è stata la svolta.
Vi siete mai sentiti cosi?
Interazioni del lettore